editoriale
Juventus, rimpianto Huijsen: il monito “profetico” di Marocchi
Juventus, rimpianto Huijsen: va al Real Madrid meno di dodici mesi dopo esser stato venduto al Bournemouth. E l’ex Marocchi lancia il monito…
Settimana scorsa, nel consueto appuntamento domenicale con “Il Club di Sky“, l’ex giocatore bianconero e ora opinionista sportivo Giancarlo Marocchi, fra il serio e il faceto, ha affermato: “Belli i tempi in cui i giovani del vivaio non erano soltanto delle plusvalenze…” Meno di una settimana dopo, Huijsen va al Real Madrid.
Huijsen, 60 milioni di rimpianti per la Juventus?
Il difensore olandese (ma naturalizzato spagnolo) viene utilizzato come esemplificativo del fallimento gestionale bianconero, ma solo perché gli altri giovani ceduti dalla Juventus (come il tanto decantato Soulé) non hanno avuto il suo stesso rendimento. Anche se, ad onor del vero, le stigmate del predestinato Huijsen ce le aveva sempre avute. Sin da quando il sempre lungimirante Massimiliano Allegri lo fece esordire in Serie A, nientemeno che alla Scala del Calcio: a San Siro contro il Milan da appena maggiorenne.
Poi un semestre di prestito alla Roma è stato sufficiente per far schizzare il prezzo del suo cartellino alla valutazione che il Bournemouth ne ha fatto questa estate: 15 milioni di euro. Un affare per entrambe: sia per la Juventus, che con la sua situazione finanziaria dell’epoca (implying che ora le cose vadano meglio e, spoiler, non è così) non poteva certo permettersi di rinunciare a una plusvalenza simile; sia per le Cherries, che si assicuravano un ragazzo dal sicuro avvenire per una cifra tutto sommato irrisoria per gli standard inglesi.
Però il paragone con il suo successore “indiretto”, vale a dire Kelly (che per pochi giorni non ha incrociato proprio Huijsen alla corte di Iraola), non regge. Sia perché l’inglese è un difensore estremamente valido, sebbene non abbia ancora avuto modo di dimostrarlo, sia perché la distanza temporale (sei mesi) fra la partenza del primo e l’arrivo del secondo non depone a favore dell’accusa: bensì della difesa.
La cessione di Huijsen, prodotto del vivaio bianconero, ha permesso alla Juventus di chiudere in attivo il semestre di bilancio che si è concluso lo scorso 30 Giugno, garantendo la liquidità necessaria per effettuare gli investimenti invernali (Kolo Muani, Veiga, Alberto Costa e lo stesso Kelly) nel semestre successivo: vale a dire in un differente esercizio di bilancio. Quindi no: se la Juventus non avesse preso Kelly per tenere Huijsen non sarebbe stata la stessa cosa, il fatto che il prezzo del cartellino sia identico non c’entra nulla.

Il ruolo del vivaio e il “monito” di Marocchi
Più che l’esemplificazione del fallimento manageriale della Juventus, la cessione di Huijsen (che a breve andrà a giocare nel club più prestigioso del mondo per una cifra quadruplicata rispetto a quella percepita in estate dai bianconeri) apre un ulteriore interrogativo: a cosa servono oggi i vivai? La domanda sovviene spontanea e la risposta più pertinente potrebbe essere quella che, indirettamente, si è dato Giancarlo Marocchi, uno che la Juventus (e non solo) la conosce bene. Huijsen è soltanto l’ultimo esempio di prodotti del vivaio immolati sull’altare del pareggio di bilancio, in un calcio sempre più schiavo del liberal-capitalismo.
In Italia abbiamo avuto anche il caso legato a Sandro Tonali, che, pur non essendo cresciuto calcisticamente nel Milan, rimarcava (grazie alla sua dichiarata fede rossonera e al fatto di essere italiano) l’idealismo (di origine anglosassone) del local boy con la fascia al braccio. Tuttavia, la lure della Premier League è irresistibile e sono pochissime le squadre al mondo che possono permettersi di rifiutare cifre del genere per i loro ragazzi di casa. Sacrificare i prodotti del vivaio, che in quanto cresciuti in casa hanno un ammortamento basso e permettono quindi plusvalenze totali, è il modo più veloce che hanno i club indebitati di generare liquidità.
A questa logica non sfuggono né i club di fascia medio-alta, con costi di gestione altissimi e la necessità di non mancare gli obiettivi minimi stagionali, né quelli di fascia medio-bassa, che si garantiscono una stabilità finanziaria sul lungo periodo con plusvalenze gigantesche. Soltanto club dalle risorse economiche sterminate possono permettersi di usare i giovani della primavera (quei pochi che sopravvivono alla spietata competizione della prima squadra) come modello di marketing. Vedasi, per esempio, i casi di Kylian Mbappé (andato via per sua volontà e non per necessità del club) e di Zaire-Emery (comunque “riserva”) nel PSG.
La disaffezione dei tifosi, specialmente di quelli “giovani” – che hanno bisogno di qualcuno che risponda ai crismi tipici dell’idolo d’infanzia per tornare ad innamorarsi del calcio come un tempo -, affonda le sue radici nella mancanza di punti di riferimento, di figure identitarie. I giocatori in un club sono solo di passaggio e, checché se ne dica, la maglia senza nome dietro non dà le stesse vibes. Perché è vero che conta ciò che c’è davanti (lo stemma) e non quello che c’è dietro, ma è altrettanto vero che il tifoso è naturalmente predisposto ad affezionarsi a chi quella maglia la veste. Se si smarrisce questo, il calcio perde la sua anima. Ammesso che non l’abbia già persa quando è sceso a patti con il diavolo del neo-liberismo.
editoriale
Juventus, finalmente Spalletti ha lasciato il segno!
Vittoria importante al Dall’Ara e secondo clean sheet di fila. La Juventus di Luciano Spalletti ha finalmente giocato un buon calcio.
La Juventus torna da Bologna con molto più dei tre punti. L’1-0 del Dall’Ara rappresenta una tappa chiave della stagione e, soprattutto, la prima autentica versione “spallettiana” dei bianconeri: squadra compatta, aggressiva, coraggiosa e finalmente riconoscibile. Una vittoria pesante, che rilancia la corsa Champions e prepara il terreno allo scontro diretto con la Roma per il quarto posto.
La chiave della vittoria della Juventus
Contro un Bologna confuso e poco convincente, la Juve ha imposto il proprio ritmo fin dall’inizio. Pressing alto, baricentro avanzato e gestione lucida del pallone hanno segnato una netta discontinuità rispetto alle precedenti uscite, comprese quelle in campo europeo. Il primo tempo è stato solido, la ripresa ancora più autoritaria, con i rossoblù pericolosi solo a sprazzi, come sulla traversa colpita da Zortea.
Il gol decisivo arriva a metà secondo tempo e porta la firma inattesa di Cabal, al secondo centro stagionale dopo quello contro l’Atalanta, bravo a sfruttare un cross preciso di Yildiz. Determinante anche l’impatto dei cambi, che hanno dato la spallata decisiva a una gara controllata per lunghi tratti. Da segnalare il rientro di Bremer nel finale, mentre Koopmeiners sarà assente contro la Roma per squalifica.

Il risultato sta persino stretto alla Juventus, che crea molto ma conferma qualche limite sotto porta. Openda spreca due occasioni nitide, Ravaglia evita un passivo più pesante e un gol di David viene annullato per fuorigioco. Segnali incoraggianti anche da Yildiz, sempre più centrale nel gioco pur senza trovare la rete.
Il successo vale il quinto posto e, almeno per una notte, il -1 dalla Roma, in attesa degli altri risultati. È il secondo clean sheet esterno del campionato, un dato che certifica la solidità ritrovata dopo un rendimento lontano da casa troppo discontinuo.
Spalletti ha parlato della “vittoria più bella” da quando siede sulla panchina bianconera, ma ha invitato alla prudenza. Bologna non è un punto d’arrivo, bensì una ripartenza. La prossima sfida con la Roma sarà il vero spartiacque dove si misureranno ambizioni, maturità e la reale crescita di una Juventus che sembra aver finalmente trovato la sua strada.
editoriale
Mourinho, Conte e l’impietoso confronto dell’Estadio da Luz
José Mourinho torna un gigante d’Europa nella serata del da Luz. Antonio Conte e il Napoli ridimensionati, al netto delle pesanti assenze.
Tutto José Mourinho, quello dei bei vecchi tempi andati, nella serata dell’Estadio da Luz. La preparazione alla gara contro il Napoli di Antonio Conte è stata impeccabile, sia dal punto di vista comunicativo che da quello tecnico-tattico. Lo Special One si conferma un gigante d’Europa, mentre il salentino è rimandato.
Mourinho-Conte, amici mai: il confronto in tre immagini
Torna Sun Tzu, con un pizzico di Coser e una spruzzata di Dahrendorf
“Conte si lamenta delle assenze? Non fatemi ridere, perché io potrei piangere. Se a lui manca Lobotka può mettere McTominay e se gli manca De Bruyne può mettere Neres“. Per una sera, lo stile comunicativo del tecnico lusitano è tornato affilato e contundente come quello dei tempi migliori. L’invettiva del Profeta di Setubal sembrava annacquata da troppi anni, incapace di raccapezzarsi con il moderno flusso tecnologico.
Però, anche se solo per una sera, stavolta ha funzionato alla perfezione. Ha spostato tutta la pressione sui propri avversari, tecnicamente superiori e con una maggiore spesa sul mercato alle spalle. E le assenze, seppur pesanti, di Bah e Lukebakio appaiono come un Everest impossibile da scalare, mentre i partenopei vengono resi “schiavi” della vittoria a tutti i costi nonostante una lista di defezioni quasi impossibile da enumerare.
Ma Mou è così. Distorce la realtà, la plasma a suo piacimento con la propria narrazione orwelliana. La sua è una neo-lingua, che però ti arriva alle orecchie quasi come fosse il tuo dialetto madre. L’evergreen di Sun Tzu, su cui il tecnico portoghese ha costruito le sue fortune dialettiche, appare meno vetusto. Quasi “modernizzato”, con il rebranding, dovuto all’implementazione di concetti propri dei sociologi Coser e Dahrendorf, che lo fan sembrare “fresco”. E’ quella che nelle scienze sociali si chiama “teoria del conflitto esterno“, ovvero l’individuazione di un nemico esterno che serve a solidificare il proprio gruppo e a rafforzarne l’identità.
Come un “6-3-1” in fase di non possesso può apparire lo zenit del modernismo
Dal punto di vista tattico, è stato lo stesso Mourinho di sempre. “Vecchio” per alcuni, estremamente piazzato nella modernità per altri. Il Benfica, in fase di non possesso, si è trincerato in difesa con il più “mourinhano” dei 6-3-1. Taluni lo chiamerebbero “catenaccio”, ma è una parola desueta. Siamo nell’epoca dei neologismi e a Coverciano preferiscono “blocco basso”, così come il deprecabile “contropiede” è stato sostituito dal più politicamente corretto “transizioni negative”. A suo modo, anche questa è una sorta di neo-lingua orwelliana.
Sono però analisi superficiali, poiché i lusitani, almeno ieri sera, sono stati il connubio perfetto di modernità e pragmatismo. Mourinho, nel presentare la partita, era stato schietto come sempre. “Non possiamo accettare il loro uno contro uno a tutto campo, altrimenti ci ammazzano”. Detto, fatto. Ed ecco che allora il suo Benfica applica un altro dei concetti tipici della linguistica moderna applicata al pallone, ovvero la “riaggressione“.
La fase di non possesso ormai si articola in due momenti diversi: quando l’avversario è nel proprio terzo difensivo e quando salta la prima pressione. Nel primo caso, i portoghesi sono aggressivi. Alti e corti, quasi a soffocare la prima costruzione del Napoli. Che infatti è farraginosa, lenta e prevedibile. Il trio difensivo azzurro non riesce quasi mai a far uscire il pallone in maniera pulita da dietro. Milinkovic-Savic è spesso costretto a lanci lunghi e idem dicasi per i tre centrali, che non riescono a scivolare sulla linea laterale.
Ma quale “catenaccio”: il calcio di Mourinho è qualità allo stato puro
Peccato che quel tipo di situazione Mou l’abbia preparata alla perfezione. Hojlund non è Lukaku e lo si è lapalissianamente capito (qualora servisse un’ulteriore dimostrazione) nella serata di Lisbona. Forzare la palla diretta equivale, nella maggior parte dei casi, a restituire la sfera ai padroni di casa. Otamendi e Araujo hanno anticipato in maniera sistematica il centravanti danese, spegnendo le velleità offensive azzurre che peccavano della qualità tecnica necessaria per scardinare centralmente l’area di rigore militarizzata dai lusitani.
Rimaneva solo la via degli esterni, ma Lang e Neres venivano sistematicamente raddoppiati (da qui il “6-3-1” in fase difensiva) perdendo la propria peculiarità nell’1 vs 1. E anche se crossi, dato che in mezzo hai comunque Hojlund e McTominay, la prendono sempre loro: del resto l’avevano preparata così. Solo tattica, quindi? Macché! Il brio alla manovra offensiva la danno i giocatori, mica gli allenatori, e il Benfica di qualità nei piedi ne ha. Basti vedere l’illuminante tacco di Aursnes nel primo tempo, sull’ennesimo errore di Ivanovic.
Il Benfica questa partita l’ha dominata, soprattutto nel primo tempo, e il passivo sarebbe potuto essere anche più ampio, se Mourinho non avesse scelto di far riposare il suo bomber. Con Pavlidis al posto di un Ivanovic impresentabile, che ha fallito almeno due occasioni nitide, l’umiliazione (tattica) subita dal Napoli avrebbe assunto i connotati tennistici di quella di Eindovhen. E allora cosa resta? Al netto delle attenuanti, legate agli infortuni e al calendario, che Mourinho, checché se ne dica, resta un gigante d’Europa, a differenza di (questo) Conte. Portare questa squadra, con queste assenze e con questo calendario, ai playoff sarebbe un’impresa che solo a lui può riuscire. Ora bisogna andare allo Stadium (dove Mou in Champions League ha già vinto, quando allenava il Manchester United) contro una Juventus mediocre e poi al da Luz arriverà il Real Madrid di uno Xabi Alonso quasi esonerato. Impossible is nothing, per il Re delle notti magiche in Europa.

SCOTT MCTOMINAY RAMMARICATO ( FOTO DI SALVATORE FORNELLI )
editoriale
Milan, il corto muso funziona ancora: ora date due giocatori ad Allegri! L’editoriale di Mauro Vigna
Milan, la squadra di Allegri si sbarazza a fatica del Torino e riconquista la vetta della classifica. Un primo posto in comproprietà col Napoli e l’esigenza di mettere mano al portafoglio a gennaio.
Il corto muso funziona ancora, Massimiliano Allegri mette un gol davanti a quelli del Torino e vince una partita che dopo i minuti iniziali sembrava già sentenziata. Un gol in più dell’avversario, semplice per il tecnico livornese il quale magari non sempre fa giocare bene le sue squadre, ma le rende dannatamente efficaci. Ed è questo che serve, il bel gioco è fine a sè stesso se poi alla fine si stringe poco.
Alzi ora la mano chi reclama il bel gioco, in fondo a noi interessa essere lì davanti a tutti e per farlo serviranno almeno due colpi a gennaio. La fotografia del Milan attuale parla di un attacco sterile, eccezion fatta per il cecchino Pulisic, capocannoniere della Serie A. Gimenez ed Nkunku non stanno ripagando la fiducia di tecnico e dirigenza e in difesa la necessità è regalare un rinforzo al tecnico livornese il quale prega per la lunga vita di Gabbia, Pavlovic e Tomori.
Essere primi comporta onori e oneri, ma anche la dirigenza ora dovrà fare la sua parte. Si è detto che non ci saranno soldi a gennaio. A parte crederci poco, comunque se così fosse, basterà mettere sul mercato l’attaccante messicano il quale ha mercato. Per poi fiondarsi magari su un usato sicuro nell’attesa di Vlahovic in estate. Oppure dirottare tutto e subito su Mauro Icardi, uno che la porta la vede, eccome se la vede.
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