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Thanks Kingy, hai reso Leicester un posto migliore

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Commemorazione di Andy King, leggenda e bandiera ormai ammainata del Leicester, che ha dato il suo addio al calcio giocato nella giornata di ieri. Lettera aperta da parte di un tifoso delle foxes

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Chi è Andy King: il leader silenzioso del Leicester di Ranieri

Andy King è l’unico calciatore nella storia del calcio inglese ad aver vinto il titolo in tutte e tre le principali leghe professionistiche d’oltremanica. Ha infatti vinto la Football League One e il Championship, rispettivamente l’equivalente della Serie C e della Serie B italiana, e la ben più importante Premier League del 2016.

Non è il primo giocatore che salta all’occhio di tutti quegli appassionati di calcio che ripensano all’impresa eroica del Leicester di Claudio Ranieri. Per i tifosi delle foxes, però, il gallese Barnstaple è uno dei giocatori più amati dell’ultima decade. Non solo perché i tre trofei sopracitati li ha vinti tutti con la maglia della Blue Army. Non solo perché in 15 anni con il blu indosso ha totalizzato 379 presenze condite da 62 gol e 24 assist.

Andy King, prima che il centro di formazione del Leicester diventasse uno dei più all’avanguardia d’Europa, è stato a lungo il miglior prodotto dell’Academy delle foxes. Talento purissimo. Numero dieci d’altri tempi, di quelli capaci di vendere magliette e biglietti anche in un periodo storico decisamente cupo per le volpi.

Il “local boy” del Leicester venuto dal Galles

Nella decade precedente all’acquisizione del club da parte della Asian Football Investments, il Leicester stava vivendo un periodo storico particolarmente mesto. Quello a cavallo fra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI fu tutto sommato un periodo pieno di soddisfazioni per un piccolo club dell’East Midlands.

Presenza fissa in Premier League. Esordio nelle coppe europee e addirittura due trofei (due League Cup) vinte nel giro di tre anni: una rarità da quelle parti. Poi, nella stagione 2003-2004, la retrocessione in Championship e da lì il buio. Una decade passata come jojo team fra la seconda e la terza serie del calcio inglese, e quando andava bene al massimo potevi goderti una mesta stagione a metà classifica.

In uno scenario di stagnante mediocrità, il talento cristallino di un gallese cresciuto in casa (e integratosi subito nel tessuto sociale della città, tanto da essere considerato un local boy pur non essendolo anagraficamente) è stato una luce nel buio di una squadra dalla mediocrità tecnica a tratti sconcertante.

Leicester

Photo Source: LCFC.com

Dal Championship alla Champions

Quando il Leicester si stabilizzò come una realtà consolidata del calcio inglese, vincendo la Premier League e facendo il proprio esordio in Champions League, King rappresentò (assieme a Kasper Schmeichel e Danny Drinkwater, quest’ultimo rapidamente dimenticato dopo il suo burrascoso passaggio al Chelsea) l’anello di continuità fra la nuova e ambiziosa proprietà thailandese e le umili radici di una squadra di provincia.

Purtroppo per lui, Kingy (così ribattezzato dai suoi tifosi) non poté concludere la propria carriera nel Leicester come sognava di fare. Se Claude Puel è uno dei tecnici più odiati della storia del Leicester, il motivo è (in parte) legato al suo rapporto con King e ad alcune dichiarazioni scioccanti dell’ex-numero dieci.

Durante il suo periodo di prestito semestrale allo Swansea, King concesse un’intervista al The Times (subito dopo l’esonero del francese, dato che comunque era ancora un tesserato del club) in cui rivelò a tutta l’Inghilterra un qualcosa che nell’ambiente Leicester era già noto: ovvero le pessime doti umane del transalpino.

Le frizioni con Puel, l’addio e il lieto fine

King parlò a cuore aperto, regalando alla stampa d’oltremanica dichiarazioni che sono rimaste nella storia del Leicester. Frasi come “Se Puel avesse potuto mandare via tutti i reduci del titolo vinto in un colpo solo, lo avrebbe fatto sicuramente“. Oppure “Non sarei mai voluto andare via, ma Puel non mi parlava. Se fossi rimasto la mia carriera da calciatore sarebbe finita perché non mi avrebbe fatto giocare neppure un minuto“.

Scoperchiato il vaso di pandora, molti suoi compagni (su tutti Ben Chilwell, un altro “ragazzo di casa” dato che era arrivato al Leicester a otto anni) gli fecero eco. Nonostante l’esonero di Puel, King non riuscì più a tornare al Leicester da giocatore ma lo fece da avversario: più precisamente lo scorso 23 Settembre.

In quell’occasione il gallese vestiva la maglia del Bristol City assieme a un altro reduce del 2016 come Matty James. In panchina c’era Nigel Pearson, l’allenatore che ha riportato le foxes in Premier League permettendo il “miracolo” del 2016. Di lì a poco dovrà rassegnare le proprie dimissioni a causa di una grave malattia neuronale e a lui vanno i miei più sinceri auguri di una pronta guarigione.

Il Leicester vince quella partita 1-0, ironia della sorte grazie al gol dell’unico reduce del 2016 in campo (l’altro è Albrighton, ma sedeva in panchina) ovvero Jamie Vardy, e il pubblico del King Power tributa una standing ovation sentita e accorata al proprio beniamino. In qualche modo il fato ha fatto il suo corso e ha permesso a Kingy di ricevere il meritato saluto della sua gente: esattamente come desideravano tutti.

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Il caso Diarra è imparagonabile al caso Bosman

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Fifa, il presidente Infantino

Il caso Diarra potrebbe rivoluzionare il calcio come Bosman? Quali sono le differenze e come la Corte Europea ha influenzato il sistema delle rescissioni.

Trent’anni fa il caso Bosman ha cambiato per sempre le regole del calcio, in un periodo in cui il sistema economico dello sport era completamente diverso. Non esistevano i “parametri zero” come li conosciamo oggi, solo i calciatori senza vincoli contrattuali potevano trasferirsi liberamente. E’ vero che oggi una nuova sentenza potrebbe rivoluzionare di nuovo il mondo del calcio?

L’archetipo Bosman

La vicenda di Jean-Marc Bosman nacque nel 1990, quando l’RFC Liegi, il suo club, gli impedì di trasferirsi al Dunkerque in Francia nonostante il contratto fosse scaduto. Il Liegi chiedeva 375.000 euro, una cifra considerata fuori mercato. In Francia il Dunkerque gli avrebbe offerto uno stipendio triplo rispetto a quello che percepiva in Belgio, e questo rendeva il trasferimento particolarmente allettante per Bosman. Tuttavia, il Liegi non solo non accettò di lasciarlo partire ma ridusse il suo stipendio al salario minimo belga di 275 euro mensili.

Infuriato Bosman portò il caso in tribunale, denunciando sia l’RFC Liegi che la UEFA alla Corte di Giustizia Europea. La causa andò ben oltre i confini della giustizia sportiva, arrivando fino a quella ordinaria. La Corte di Giustizia Europea gli diede ragione basandosi sul Trattato di Roma, che da oltre 30 anni sanciva la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione Europea. Grazie a questa sentenza i calciatori furono assimilati agli altri lavoratori, acquisendo il diritto di trasferirsi liberamente all’interno dell’UE una volta scaduto il loro contratto. Questo cambiamento rivoluzionò il calcio, dando vita al concetto di “parametro zero”: che permette ai giocatori di cambiare squadra senza che il club cedente riceva un indennizzo.

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La storia di Diarra

Nel 2014 l’ex centrocampista di Real Madrid e PSG, Lassana Diarra, cercò di rescindere il suo contratto con la Lokomotiv Mosca, con cui aveva firmato un accordo triennale solo un anno prima. Diarra voleva trasferirsi al Charleroi in Belgio, ma la Lokomotiv chiese un indennizzo di circa 20 milioni di euro come “pagamento solidale”: considerandolo responsabile della rottura del contratto.

Diarra fece quindi ricorso alla Corte Europea, contestando le norme FIFA che ostacolano il trasferimento in questi casi. Quando un club ritiene che un giocatore e il suo nuovo club siano responsabili del pagamento di un’indennità al club precedente, la federazione nazionale può negare il rilascio del certificato internazionale di trasferimento (il cosiddetto transfer): bloccando di fatto il passaggio.

La risposta della FIFA

Diarra

La Corte d’Appello del Belgio, in particolare il tribunale di Mons, interpellò la Corte di Giustizia Europea per stabilire se queste norme fossero compatibili con il principio di libera circolazione dei lavoratori.

Dieci anni dopo la sentenza stabilì che le norme in questione effettivamente ostacolano la libera circolazione dei calciatori professionisti, impedendo la libera concorrenza tra i club.

Tuttavia, la Corte si è concentrata sulle interruzioni contrattuali senza giusta causa e non ha messo in discussione i regolamenti FIFA sui trasferimenti dei calciatori.

E’ corretto paragonare i due casi?

L’articolo 17 del regolamento FIFA, che tratta delle rescissioni contrattuali senza giusta causa, è stato il vero oggetto della controversia. Nonostante ciò, la FIFA ha dichiarato di essere soddisfatta del fatto che la validità dei principi chiave del sistema dei trasferimenti sia stata riconfermata dalla sentenza. Sono infatti stati messi in discussione solo due paragrafi del regolamento FIFA sullo status e il trasferimento dei giocatori.

Il caso Bosman del 1995 pose fine al limite massimo di giocatori stranieri nelle squadre, permettendo ai calciatori di trasferirsi liberamente alla scadenza del contratto senza che il club cedente ricevesse un compenso. Da quel momento nacque il concetto di “parametro zero”. Di fronte a due situazioni così diverse, è chiaro che non è possibile paragonare il caso Diarra a quello Bosman. Il primo si concentra sulle rescissioni contrattuali anticipate e su come vengono gestite, mentre il secondo ha modificato radicalmente le regole alla base dei trasferimenti internazionali nel calcio europeo come lo conosciamo noi oggi.

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Roma, é davvero tutta colpa di Matias Soulé?

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E’ davvero tutta colpa di Matias Soulé? Critiche e aspettative su di lui, ma il giovane argentino ha ancora tempo per brillare. Cosa lo frena davvero?

Che fine ha fatto Matías Soulé? La Roma è uscita sconfitta in Svezia contro l’Elfsborg. Una partita in cui i giallorossi non sono mai riusciti a imporsi concretamente, eccezion fatta per gli ultimi 15 minuti. La prestazione complessiva della squadra è stata sotto tono, ma le maggiori critiche sono piovute su Matías Soulé. L’argentino, classe 2003, era tra i giocatori più attesi, ma ha deluso le aspettative. Tuttavia, ci si chiede: è davvero tutta colpa di Soulé?

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Dove sta il problema?

Da un giocatore del suo calibro ci si aspetta sempre quel lampo di genio capace di cambiare le sorti di una partita, ma ieri sera così non è stato. Guardando le heatmap della partita, si nota che la maggior parte delle azioni più intense si sono sviluppate proprio nella sua zona di competenza: ovvero sulla fascia destra. Soulé ha totalizzato 73 tocchi con una precisione nei passaggi del 91%. Numeri che, almeno sulla carta, non sembrano raccontare di una prestazione insufficiente. Allora, dov’è il vero problema?

Soulé

SOULE MATIAS ( FOTO DI SALVATORE FORNELLI )

Uno dei fattori chiave è sicuramente il modulo. Seppur sulla carta possa sembrare simile a quello che adottava nel Frosinone, la realtà è ben diversa. Con la squadra di Di Francesco Soulé giocava alto a destra, ma aveva soprattutto il compito di accentrarsi: favorendo così le incursioni dei terzini e degli esterni.

Milan-Venezia, Di Francesco

Il gioco del Frosinone era fondato sul fraseggio e sul possesso palla, caratteristiche che esaltavano le qualità tecniche dell’argentino. Con Juric, invece, la Roma predilige verticalizzazioni rapide, un approccio che sembra non sposarsi bene con lo stile di gioco di Soulé. Nella partita contro l’Elfsborg, infatti, ha faticato a trovare spazi, finendo spesso per pestarsi i piedi con i propri compagni e scontrandosi contro la solida linea difensiva svedese.

Juric a difesa di Soulé

A fine partita, Juric ha difeso il suo giocatore ai microfoni di Sky Sport: “Secondo me si dà da fare, ha qualità, ma è solo al secondo anno in Serie A. Non riesce a esprimere tutto il suo talento, però cerca sempre il contatto con la palla e si fa vedere. Questo significa che non sente la pressione. Sono convinto che crescerà. Ha fatto un anno di Serie A al Frosinone, bisogna essere tranquilli. Oggi mi è piaciuto di più per le posizioni in campo, bisogna lavorare, ma sono fiducioso.”

Dybala/Soulé, l’uno esclude l’altro

Un altro aspetto da considerare è la presenza di Paulo Dybala. Soulé è stato acquistato dalla Roma pensando a una possibile partenza di Dybala che però non si è concretizzata, limitando così le chance da titolare del giovane argentino. Entrambi occupano la stessa zona di campo ed è difficile immaginare di schierarli insieme senza compromettere l’equilibrio della squadra.

dybala

PAULO DYBALA IN AZIONE ( FOTO DI SALVATORE FORNELLI )

Se Dybala e Soulé condividessero il campo potrebbero formare una coppia d’attacco potenzialmente esplosiva, ma il problema risiede nella fase difensiva. Entrambi non eccellono nel ripiegamento e, con i già noti problemi difensivi della Roma, schierarli insieme significherebbe rischiare troppo nella copertura. Dato di fatto che, per la cronaca, aveva compreso fin da subito anche Daniele De Rossi, esonerato forse senza una giusta causa ed in maniera troppo repentina.

Il talento c’è

La conclusione è che Soulé è un giocatore di grande talento, ma ha ancora bisogno di tempo per inserirsi nel contesto tattico di una squadra ambiziosa come la Roma. Le sue qualità sono indiscutibili, ma al momento sembra troppo leggero per portare sulle spalle le responsabilità di una squadra e di una città che da anni delude le aspettative. Soulé ha tutte le carte in regola per diventare un top player, ma per farlo dovrà crescere ancora.  Soprattutto sotto il profilo tattico e mentale, ma non si dica che non abbia talento.

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Genoa – Sampdoria: leggenda e dietrologia dello ‘striscione a testa in giù’

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Derby Genoa – Sampdoria: leggenda e dietrologia dello striscione a testa in giù, emblema di supremazia e rivalità tra tifoserie, che trascende il campo di gioco

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Genoa – Sampdoria, il derby della lanterna e quell’aria pesante

L’eco degli scontri tra Genoa e Sampdoria risuonavano nell’aria già da tempo. Con le due fazioni rivali pronte a giocarsi la stracittadina non solo sul rettangolo di gioco, ma anche per le strade di Genova. Qui, la rivalità scorre di soppiatto, silenziosa tra i vicoli, pronta a esplodere nel giorno della partita. Dato che le due compagini non si affrontavano da anni, ci si aspettava uno scenario di forte tensione, che nell’arco della giornata è però degenerato, portando a circa 15 arresti tra genoani e doriani.

Il punto di non ritorno

Nei giorni scorsi, i tifosi rossoblù avrebbero sottratto degli striscioni alla tifoseria avversaria durante un blitz – se così può essere definito – nella sede degli Ultras Tito Cucchiaroni.

Climax di violenze

Il “bottino di guerra” è stato poi esibito durante il match, scatenando la furia dei tifosi genoani, che hanno risposto prontamente con contro-striscioni preparati per l’occasione.

Il tentativo della questura

La questura aveva cercato sin dall’inizio di impedire l’ingresso degli striscioni rubati, nel tentativo di evitare l’uso di materiale potenzialmente pericoloso, in grado di surriscaldare ulteriormente gli animi già ampiamente accesi.

Genoa – Sampdoria, le origini dello striscione a testa in giù

Esiste un codice non scritto delle frange più estremiste del tifo organizzato: il furto dello striscione della fazione avversaria rappresenta uno dei gesti più importanti e clamorosi. Tale gesto segna la “vittoria” sul campo di una determinata frangia a discapito di un’altra. Il vessillo avversario “rubato” esposto al contrario, costituisce a tutti gli effetti un bottino di guerra.

Il codice ultras

Negli anni ’80 e ’90, il fenomeno ultras in Italia raggiunse il massimo apice, trasformandosi in una sorta di culto urbano in cui il calcio diveniva identità, appartenenza e, soprattutto lotta. In questo mondo fatto di codici non scritti e valori propri, rubare una bandiera o uno striscione avversario significa molto più di una semplice bravata, una vera e propria dichiarazione di guerra, un trofeo che segna la superiorità di un gruppo sull’altro.

Ciò che è accaduto in Genoa – Sampdoria ne è la conferma. Come gli antichi guerrieri che si contendevano il dominio dei campi di battaglia, gli ultras si scontrano negli stadi e fuori da essi, su autostrade, nei pressi delle stazioni ferroviarie o negli autogrill. Ogni striscione rubato non rappresenta solo un pezzo di stoffa, ma l’essenza stessa, l’anima del gruppo avversario. Sottrarre quel vessillo significa infliggere un’umiliazione tale che, secondo il codice d’onore ultras, può portare allo scioglimento del gruppo sconfitto. Come accadeva per i guerrieri antichi, perdere la propria bandiera significava perdere il proprio onore.

Il vessillo rubato come bottino di guerra

Questa dinamica affonda le sue radici in antiche pratiche belliche. Già i Vichinghi, durante le loro incursioni in Europa, erano soliti rubare le bandiere nemiche e issarle a testa in giù, un chiaro segnale di scherno e sottomissione. Per loro, la bandiera rappresentava molto più di un semplice simbolo: era l’essenza stessa del nemico, un trofeo di guerra da esporre come segno di vittoria​.

genoa - sampdoria

Persino i Romani consideravano la perdita delle insegne legionarie una vergogna inaccettabile, lanciandosi in spedizioni disperate ai fini di riconquistarle

Nel mondo ultras, questi rituali guerrieri si ripetono acquisendo una simbologia che riporta alla mente antiche battaglie per il controllo dei territori. Sottrarre una bandiera, uno striscione, significa anche marcare il confine tra chi domina e chi viene sconfitto. La bandiera rovesciata diventa il segno tangibile di una vittoria morale, di un’umiliazione inflitta agli avversari.

Ciò che è accaduto in Genoa – Sampdoria è solo la punta di un iceberg. In un contesto fatto di simbologie e codici, la bandiera non è solo appartenenza, ma una vera e propria arma di guerra psicologica. E come in tutte le guerre, l’onore e la sopravvivenza del gruppo dipendono dalla capacità di difendere i propri colori e, quando possibile, sfilare quelli degli avversari.

 

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