editoriale
Più brand che squadra: il Milan ha perso la sua voce
Milan-Serie A: Dalle lacune dirigenziali al velato appoggio nei confronti della guida tecnica. Il vero problema in casa Milan è la comunicazione. Ecco i dettagli.
Da Fonseca a Conceição o la bufera dirigenziale, il vero problema del Milan in questa stagione – e non solo – è stato quello della comunicazione. Spesso assente o troppo sbilanciata su una visione business-oriented, mirata a valorizzare il potenziale di un brand enorme come quello di una società capace di vincere tutto in trent’anni, la comunicazione rossonera ha finito per trascurare ciò che accade sul campo. E, quel che è peggio, non sembra destinata a cambiare rotta.
Un gioco delle parti a tratti ambiguo, che talvolta ha appoggiato apertamente l’allenatore in carica – prima Fonseca, oggi Conceição – e in altre occasioni si è invece affrettato ad additare le guide tecniche come uniche responsabili dei risultati deludenti. Fino ad arrivare alle parole di Zvonimir Boban, che nelle ultime ore hanno fatto il giro del web.
Parole che non hanno fatto altro che alimentare un polverone del tutto evitabile intorno a una dirigenza già da tempo contestata e invitata a prendere una direzione diversa. Un intervento che solleva ulteriori dubbi sulla reale vicinanza dei piani alti al destino sportivo del Milan, specie alla luce di una comunicazione che – pur dichiarandosi fedele al motto “Always Milan” affisso anche sulla fiancata del Pullman che accompagna la squadra – appare oggi sempre più distante dallo spirito e dai valori storici del club.
Milan, cosa è successo?
Due sono gli eventi simbolici che riassumono al meglio le lacune comunicative della dirigenza rossonera: il caso legato al direttore sportivo (il cosiddetto “DS gate”) e la scelta dell’allenatore per la prossima stagione. Una la conseguenza dell’altra.
Prima ancora di pensare alla guida tecnica, infatti, il Milan dovrebbe risolvere le fratture interne alla propria struttura societaria. Qualunque sia la direzione intrapresa, sarà il nuovo dirigente – chiunque egli sia, ammesso che ci sia – a decidere a chi affidare la panchina rossonera nel 2025/26. Ma al momento resta viva la percezione, condivisa anche all’esterno, di un club diviso tra due anime, due visioni inconciliabili che impediscono di tracciare una linea chiara e coerente.
Ai piani alti risiedono quei nomi altisonanti additati da Boban come “non competenti”, che hanno fatto di tutto per sbarazzarsi degli ultimi due baluardi capaci di comprendere le esigenze del club, la coppia Maldini-Massara e prima ancora lo stesso Boban.
Business men con un’idea in testa, volti a seguire un ideale sempre più distante dall’eredità del club più internazionale che esiste in Italia: il Milan.
Una società volta a rendere realtà il modello inglese del “Surveillance Capitalism”, dove il tifo diventa un’occasione di lucro per l’azienda. Che come descritto dalla nota sociologa statunitense Shoshana Zuboff, in questo modello l’utente – e in questo caso il tifoso – non è il consumatore, ma il prodotto.

ZLATAN IBRAHIMOVIC PENSIEROSO GUARDA IN ALTO ( FOTO DI SALVATORE FORNELLI )
Prima Tare, poi l’accordo (successivamente saltato) con Paratici, passando per D’Amico, salvo poi tornare sui propri passi con lo stesso Tare, e infine il silenzio. Un silenzio che, dopo Pasqua, ha finito per contraddistinguere le stanze di Casa Milan. Perché, in fin dei conti, dove altro si può trovare il “Board of Governors” rossonero?. Al di là delle comparsate di Ibrahimović in stile cameo e di qualche dichiarazione pre-scritturata di Furlani, il resto dei dirigenti del Milan sembra sparito nel nulla. Un mistero che nemmeno una ricorrenza come il 125º anniversario del club è riuscita a svelare.
Ritrovare chiarezza e unità dovrebbe essere la priorità. Perché in una società come l’AC Milan, che in passato ha insegnato comunicazione sportiva a tutto il calcio europeo, questi aspetti non possono più essere considerati secondari.
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Milan, poco importa della Coppetta Italia: più gravi i soliti problemi | L’editoriale di Mauro Vigna
Milan, una sconfitta in trasferta per 1-0 contro la Lazio non deve assolutamente preoccupare. Sì, perché i problemi in casa rossonera sono decisamente altri.
Il Milan esce sconfitto, ma non ridimensionato, in seguito all’1-0 rimediato in trasferta contro la Lazio. Una gara giocata probabilmente meglio rispetto a quella di campionato pochi giorni fa, ma la sconfitta non deve gridare vendetta. Primo perché si giocava una competizione di cui poco gliene fregava a Massimiliano Allegri il quale è impegnato per conseguire l’obiettivo minimo stagionale ossia la qualificazione Champions.
Un organico troppo corto per disperdere energie inutili, i soliti problemi che la dirigenza dovrà obbligatoriamente (si spera) risolvere a gennaio. Una coperta eccessivamente inadeguatae una squadra che va in affanno quando mancano i suoi big.
Sebbene ce ne fosse ancora il bisogno, abbiamo capito che Estupinan non è da Milan, probabilmente nemmeno da Serie A, Ricci non è una mezzala, senza Modric e Rabiot è un altro Milan, Leao ed Nkunku non sono punte centrali. Prima si capisce quest’ultimo concetto e meglio è. Il francese ieri sera a tratti imbarazzante, Leao decisamente in giornata no, e comunque fuori ruolo.
Serve un attaccante centrale e questa volta la dirigenza dovrà ascoltare Allegri. Serve un centrale difensivo così come serve a mio avviso anche un terzino destro. L’invito è quello di aprire il portafoglio e spendere soldi che in casa già ci sono. Siamo primi in classifica, fino a prova contraria, adesso è il momento di osare. Senza gli alibi e le scuse della Coppetta Italia.
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Atalanta: Palladino, la rivincita del tecnico “incompreso”
Palladino: dal fischio della Curva Fiesole al trionfo con la Dea, la settimana da sogno di un tecnico che il destino ha voluto premiare.
Palladino-Pradè: accoppiata perdente, sparite per il bene della nostra gente. Lo striscione della Curva Fiesole pendeva dalle gradinate, una freccia diretta ai dirigenti, colpevoli agli occhi dei tifosi di una stagione che non aveva soddisfatto.
Ma dietro le quinte, Raffaele Palladino continuava a tessere la sua tela, senza clamore ma con risultati concreti. Chiudere al sesto posto in campionato non era solo un numero: era il segno di un lavoro paziente, fatto di scelte giuste al momento giusto e di talenti valorizzati, come Moise Kean, esubero diventato ben presto asso nella manica oltre che un vanto per chi finalmente gli aveva cambiato radicalmente la carriera. Destinato a diventare il gioiello della Fiorentina. Di lui, durante l’ultima finestra di mercato, si temeva addirittura la partenza per poco più di 50 milioni, mentre solo dodici mesi prima era stato acquistato solamente per 13 milioni, una cifra che al tempo aveva fatto storcere il naso a molti, ma che ora sembrava quasi un affare d’altri tempi.

RAFFAELE PALLADINO E MOISE KEAN ( FOTO DI SALVATORE FORNELLI )
E Palladino? Nonostante tutto aveva deciso di pagare il prezzo più alto. Lasciare il progetto, rinunciare a un contratto pesante fino al 2027, accettare di diventare il capro espiatorio di una stagione forse mai compresa fino in fondo. Un gesto che parlava di responsabilità, ma anche di coraggio: di chi mette il bene della squadra davanti al proprio orgoglio, e accetta di camminare tra applausi e fischi, consapevole che la storia non giudica subito chi lavora nell’ombra.
Una decisione che, se da una parte aveva dato ragione a Palladino — con una Fiorentina ai minimi storici in qualsiasi competizione — dall’altra sembrava poter mettere a rischio la sua carriera. Prima dell’Atalanta, infatti, nessuno aveva pensato al suo nome, preferendo tecnici che, al netto dei risultati, avevano accumulato numeri ben più bassi nelle stagioni precedenti.
Palladino, tra karma e destino
Eppure il destino aveva altri piani. L’Atalanta, dopo aver interrotto il rapporto con Juric, ha affidato la panchina proprio a lui, regalando al tecnico un’occasione che pareva scritta già a aprtire dal suo terzo impegno con la Dea. Nel basket d’oltreoceano esiste un termine che descrive eventi che sembrano accadere per ragioni karmiche, una sorta di “you get what you deserve”, che in italiano si traduce con “Ecco quello che ti meriti”.
E ieri, intorno alle 18, Palladino ha incarnato perfettamente questa espressione. Dopo la vittoria contro il Francoforte in quello che è stato il suo esordio in Champions League, il tecnico ha replicato anche contro il suo passato, infliggendo un amaro destino alla sua ex squadra. Sfogliando l’almanacco delle retrocessioni dalla Serie A alla Serie B, emerge un dato impietoso: mai una squadra incapace di ottenere almeno una vittoria nelle prime tredici giornate è riuscita a salvarsi. E così, tra applausi e rimpianti, Palladino ha scritto un nuovo capitolo della sua storia, dimostrando che a volte il destino sembra davvero fare giustizia da sé.
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Milan, deadline gennaio 2026: una volta per tutte capiremo le intenzioni della dirigenza | L’editoriale di Mauro Vigna
Milan, c’è la data entro la quale capiremo, probabilmente una volta per tutte, le reali intenzioni della dirigenza e del club in generale. Vediamo meglio qui di seguito in dettaglio.
Il mese di gennaio 2026 sarà cruciale. Ogni occasione di mercato è importante, ma ritengo che questa lo sia ancora di più. Mi spiego meglio, finora quello che è sempre emerso dalla proprietà Gerry Cardinale è l’esigenza di centrare la qualificazione in Champions.
E chi se ne frega se si arriva primi, oppure secondi, oppure terzi, oppure quarti. Entro le prime quattro posizioni va tutto bene. Ma è così anche per i tifosi rossoneri? Sicuramente no.
I presupposti per fare bene in questa stagione ci sono tutti. A oggi il Milan è secondo in classifica a soli due punti dalla capolista Roma e sulla panchina siede un tecnico capace e che ha dimostrato ampiamente di sapere vincere che risponde al nome di Massimiliano Allegri.
Ora la domanda è: cosa farà la dirigenza a gennaio? Accontenterà il tecnico con almeno 3 innesti di qualità in difesa, centrocampo e attacco oppure giocherà al risparmio forte dell’attuale rosa? Questo è lo snodo principale in seguito al quale capiremo meglio le reali intenzioni della proprietà AC Milan.
Acquistare tre prospetti di esperienza significherebbe lottare per lo scudetto senza minimamente nascondersi. Attendiamo sviluppi.
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