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Ali Daei, il “grande Re” dell’Iran che sconfisse gli USA (anche) a calcio

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Savona

21 Giugno 1998. L’Iran di Ali Daei sconfisse 2-1 gli Stati Uniti, nella fase a gironi nei Mondiali di Francia ’98: 27 anni prima dell’aggressione sionista.

Lo scorso 21 Giugno, gli Stati Uniti hanno bombardato il suolo iraniano per venire in soccorso dell’enclave sionista: che esattamente 9 giorni prima aveva realizzato l’aggressione ai danni della Repubblica Islamica che grazie a Donald Trump sarebbe stata ribattezzata come “Guerra dei 12 giorni”. Esattamente 27 anni fa, USA e Iran si affrontavano per la prima volta in una competizione calcistica ufficiale: i Mondiali di Francia 98′.

Ali Daei

Dall’Iraq a Fordow: Ali Daei il “filo conduttore” fra Iran e USA

Che il destino di Ali Daei, probabilmente il più grande calciatore iraniano di tutti i tempi, si sarebbe legato a doppio filo a quello della sua terra natia lo si era capito sin dalla sua nascita. E’ nato il 21 Marzo del 1969 ad Ardabil, a circa 600km da Teheran. Dove, soltanto dieci giorni dopo, si sarebbe tenuto il referendum che avrebbe messo fine al regno dello Scià di Persia e spalancato le porte alla nascita della Repubblica Islamica.

Ali Daei aveva compiuto 10 anni da 10 giorni quando la Rivoluzione di Khomeini gettò le basi per l’instaurazione del Regime degli Ayatollah. 541 giorni dopo, con Ali Daei appena 12enne, l’Iraq di Saddam Hussein (all’epoca ancora un cocco dell’Occidente in funzione anti-iraniana) invaderà l’Iran. 8 anni di una guerra spaventosa, al termine dei quali gli Ayatollah dimostrarono per la prima volta di avere sette vite come quelle di un gatto persiano. Il regime resse, come tante altre volte sarebbe sopravvissuto nel corso degli anni.

L’Iraq invece ne uscì malissimo e le sue sofferenze vennero stroncate 15 anni dopo la fine della guerra, con gli stessi Stati Uniti (prima finanziatori e poi boia, come spesso gli accade) che deporranno definitivamente Saddam con l’invasione irachena del 2003: sventrando definitivamente un paese che tutt’oggi non si è mai ripreso da quelle due guerre. Per Ali Daei, ancora 12enne, la prima dimostrazione dell’imperialismo occidentale.

Inserire titolo

Curiosamente, ma nemmeno troppo, Iran e USA non si erano mai sfidate a calcio in una competizione ufficiale. Per la prima resa dei conti sportiva, per una gara che non sarà mai una semplice partita di calcia, si dovrà attendere il 21 Giugno del 1998. All’epoca si giocavano i Mondiali di Francia 98′, poi vinti dai padroni di casa in finale contro il Brasile di Ronaldo. Iran e Stati Uniti, entrambe inserite nel Gruppo F, verranno eliminate già nella fase a gironi, ma gli iraniani si toglieranno la soddisfazione di battere i rivali storici.

Gli iraniani vinceranno 2-1, costringendo il bullo a stelle e strisce all’ennesima sconfitta della sua storia. In quella squadra giocava ovviamente Ali Daei, che proprio grazie a quella competizione si meritò la più grande occasione della sua carriera: quella di giocare con il Bayern Monaco. Quella gara non fu soltanto il primo incontro fra USA e Iran in una gara ufficiale, ma anche la prima vittoria di Teheran in un Mondiale.

E’ quantomeno singolare che il bombardamento statunitense del suolo iraniano, voluto da Donald Trump, sia avvenuto esattamente 27 anni dopo quella sconfitta. Un’inchiesta della CNN (riportata anche da suoi illustri colleghi, come per esempio il New York Times) ha sbugiardato la propaganda del Tycoon: rivelando come i bombardamenti americani non siano riusciti ad “obliterare” i siti nucleari iraniani.

Questo nonostante lo stesso Trump avesse definitivo l’intervento americano in Iran come “il più grande successo militare da Hiroshima e Nagasaki“. Forse dimenticandosi che quell’inutile sfoggio di forza non fece vacillare di un centimetro la resistenza nipponica durante la Seconda Guerra Mondiale. O forse, semplicemente, è stato il più dolce dei lapsus. Sconfitti e con la coda fra le gambe: oggi come allora.

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Milan, poco importa della Coppetta Italia: più gravi i soliti problemi | L’editoriale di Mauro Vigna

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Milan

Milan, una sconfitta in trasferta per 1-0 contro la Lazio non deve assolutamente preoccupare. Sì, perché i problemi in casa rossonera sono decisamente altri.

Il Milan esce sconfitto, ma non ridimensionato, in seguito all’1-0 rimediato in trasferta contro la Lazio. Una gara giocata probabilmente meglio rispetto a quella di campionato pochi giorni fa, ma la sconfitta non deve gridare vendetta. Primo perché si giocava una competizione di cui poco gliene fregava a Massimiliano Allegri il quale è impegnato per conseguire l’obiettivo minimo stagionale ossia la qualificazione Champions.

Un organico troppo corto per disperdere energie inutili, i soliti problemi che la dirigenza dovrà obbligatoriamente (si spera) risolvere a gennaio. Una coperta eccessivamente inadeguatae una squadra che va in affanno quando mancano i suoi big.

Sebbene ce ne fosse ancora il bisogno, abbiamo capito che Estupinan non è da Milan, probabilmente nemmeno da Serie A, Ricci non è una mezzala, senza Modric Rabiot è un altro Milan, Leao ed Nkunku non sono punte centrali. Prima si capisce quest’ultimo concetto e meglio è. Il francese ieri sera a tratti imbarazzante, Leao decisamente in giornata no, e comunque fuori ruolo.

Serve un attaccante centrale e questa volta la dirigenza dovrà ascoltare Allegri. Serve un centrale difensivo così come serve a mio avviso anche un terzino destro. L’invito è quello di aprire il portafoglio e spendere soldi che in casa già ci sono. Siamo primi in classifica, fino a prova contraria, adesso è il momento di osare. Senza gli alibi e le scuse della Coppetta Italia.

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Atalanta: Palladino, la rivincita del tecnico “incompreso”

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Champions League

Palladino: dal fischio della Curva Fiesole al trionfo con la Dea, la settimana da sogno di un tecnico che il destino ha voluto premiare.

Palladino-Pradè: accoppiata perdente, sparite per il bene della nostra gente. Lo striscione della Curva Fiesole pendeva dalle gradinate, una freccia diretta ai dirigenti, colpevoli agli occhi dei tifosi di una stagione che non aveva soddisfatto.

Ma dietro le quinte, Raffaele Palladino continuava a tessere la sua tela, senza clamore ma con risultati concreti. Chiudere al sesto posto in campionato non era solo un numero: era il segno di un lavoro paziente, fatto di scelte giuste al momento giusto e di talenti valorizzati, come Moise Kean, esubero diventato ben presto asso nella manica oltre che un vanto per chi finalmente gli aveva cambiato radicalmente la carriera. Destinato a diventare il gioiello della Fiorentina. Di lui, durante l’ultima finestra di mercato, si temeva addirittura la partenza per poco più di 50 milioni, mentre solo dodici mesi prima era stato acquistato solamente per 13 milioni, una cifra che al tempo aveva fatto storcere il naso a molti, ma che ora sembrava quasi un affare d’altri tempi.

Palladino

RAFFAELE PALLADINO E MOISE KEAN ( FOTO DI SALVATORE FORNELLI )

E Palladino? Nonostante tutto aveva deciso di pagare il prezzo più alto. Lasciare il progetto, rinunciare a un contratto pesante fino al 2027, accettare di diventare il capro espiatorio di una stagione forse mai compresa fino in fondo. Un gesto che parlava di responsabilità, ma anche di coraggio: di chi mette il bene della squadra davanti al proprio orgoglio, e accetta di camminare tra applausi e fischi, consapevole che la storia non giudica subito chi lavora nell’ombra.

Una decisione che, se da una parte aveva dato ragione a Palladino — con una Fiorentina ai minimi storici in qualsiasi competizione — dall’altra sembrava poter mettere a rischio la sua carriera. Prima dell’Atalanta, infatti, nessuno aveva pensato al suo nome, preferendo tecnici che, al netto dei risultati, avevano accumulato numeri ben più bassi nelle stagioni precedenti.

Palladino, tra karma e destino

Eppure il destino aveva altri piani. L’Atalanta, dopo aver interrotto il rapporto con Juric, ha affidato la panchina proprio a lui, regalando al tecnico un’occasione che pareva scritta già a aprtire dal suo terzo impegno con la Dea. Nel basket d’oltreoceano esiste un termine che descrive eventi che sembrano accadere per ragioni karmiche, una sorta di “you get what you deserve”, che in italiano si traduce con “Ecco quello che ti meriti”.

E ieri, intorno alle 18, Palladino ha incarnato perfettamente questa espressione. Dopo la vittoria contro il Francoforte in quello che è stato il suo esordio in Champions League, il tecnico ha replicato anche contro il suo passato, infliggendo un amaro destino alla sua ex squadra. Sfogliando l’almanacco delle retrocessioni dalla Serie A alla Serie B, emerge un dato impietoso: mai una squadra incapace di ottenere almeno una vittoria nelle prime tredici giornate è riuscita a salvarsi. E così, tra applausi e rimpianti, Palladino ha scritto un nuovo capitolo della sua storia, dimostrando che a volte il destino sembra davvero fare giustizia da sé.

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Milan, deadline gennaio 2026: una volta per tutte capiremo le intenzioni della dirigenza | L’editoriale di Mauro Vigna

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Milan

Milan, c’è la data entro la quale capiremo, probabilmente una volta per tutte, le reali intenzioni della dirigenza e del club in generale. Vediamo meglio qui di seguito in dettaglio.

Il mese di gennaio 2026 sarà cruciale. Ogni occasione di mercato è importante, ma ritengo che questa lo sia ancora di più. Mi spiego meglio, finora quello che è sempre emerso dalla proprietà Gerry Cardinale è l’esigenza di centrare la qualificazione in Champions

E chi se ne frega se si arriva primi, oppure secondi, oppure terzi, oppure quarti. Entro le prime quattro posizioni va tutto bene. Ma è così anche per i tifosi rossoneri? Sicuramente no.

I presupposti per fare bene in questa stagione ci sono tutti. A oggi il Milan è secondo in classifica a soli due punti dalla capolista Roma e sulla panchina siede un tecnico capace e che ha dimostrato ampiamente di sapere vincere che risponde al nome di Massimiliano Allegri.

Ora la domanda è: cosa farà la dirigenza a gennaio? Accontenterà il tecnico con almeno 3 innesti di qualità in difesa, centrocampo e attacco oppure giocherà al risparmio forte dell’attuale rosa? Questo è lo snodo principale in seguito al quale capiremo meglio le reali intenzioni della proprietà AC Milan.

Acquistare tre prospetti di esperienza significherebbe lottare per lo scudetto senza minimamente nascondersi. Attendiamo sviluppi.

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