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Inter, fine di un’allucinazione collettiva. E ora il Ranking spaventa…

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Dall’eliminazione dell’Inter non ne escono ridimensionati i nerazzurri o il lavoro di Inzaghi ma il prodotto calcio italiano.

Nelle giornate immediatamente precedenti alla trasferta del Vicente Calderon ho sentito spesso sciorinato un mantra a cui mi sono fieramente accodato. In caso di eliminazione, la bontà del lavoro di Inzaghi non sarebbe stata toccata o ridimensionata.

Una campagna mediatica che ho davvero apprezzato, soprattutto alla luce di come una certa parte della stampa nostrana tenda ad attaccare gli allenatori per difendere la propria narrazione ideologica.

Solo il City davanti all’Inter

Un’ingiustificata (e ingiustificabile) arroganza, mista a una retorica stentorea ma vuota, sono i capisaldi della comunicazione italiana dai tempi della Prima Guerra Mondiale. Prima di andare al fronte c’è la necessità di convincere i propri soldati di essere i più forti. E se poi le cose vanno male, come a Caporetto, allora il pavido Luigi Cadorna se la prende con i propri sottoposti. Con il Papa. Con la stampa. Già all’epoca c’era l’abitudine di scaricare sulla “sinistra” tutti i mali del paese. Se la prese con tutti, tranne che con sé stesso.

Un modus operandi intrinseco nella mentalità italiana, soprattutto a quelle latitudini dove convincere qualcuno della bontà delle tue parole fa fatturato. E allora li vedi lì. Nei salotti d’opinione televisivi, tutti raggianti, a raccontarti di come il primo posto nel Ranking UEFA sia soltanto una pura formalità.

Ti parlano dei problemi del Bayern Monaco, del Barcellona o dell’Atlético Madrid. Quelli delle squadre italiane, in particolare quelli di Napoli e Lazio che rispettivamente sono settima e nona, si fa finta che non esistano. Ogni anno la stessa storia. Si pontifica sull’inesistente superiorità delle squadre italiane su quelle di tutto il l’orbe terraqueo e poi ti ritrovi a dover dare spiegazioni con zero italiane ai quarti di finale.

Ranking UEFA, Italia ancora prima ma…

Il calcio italiano, negli ultimi quindici anni, soltanto due volte ha alzato al cielo un trofeo europeo ed entrambe le volte lo ha fatto grazie a un allenatore definito bollito dalla stragrande maggioranza della stampa nostrana: che sta celebrando il suo successore neanche fossimo di fronte al nuovo Guardiola.

Nel mezzo ci sono state (poche) finali, ma tutte perse. Nel frattempo le altre hanno vinto tutte. Le inglesi e le spagnole che te lo dico a fare: hanno dominato il Ranking UEFA per decenni. “In Bundesliga c’è solo il Bayern” che nel frattempo però ha vinto due volte la Champions League, con l’Eintracht Frankfurt che meno di due anni fa ha alzato al cielo quell’Europa League che alle squadre italiane manca da quasi trent’anni.

Nel mezzo l’han vinta tutti. I portoghesi e i russi (due volte), perfino ucraini e olandesi. Mancano all’appello le squadre francesi: magra consolazione. In questo ventennio di vacche magre era abbastanza ovvio che una finale di Champions, seppur sporadica come quella dell’Inter, venisse celebrata come uno spartiacque.

Ci si sono messi anche i risultati (sensazionali) dell’Inter in campionato, per ricordarci (per l’ennesima volta) che il campionato italiano non è un metro di paragone credibile per il calcio europeo. L’Inter è arrivata seconda nel proprio girone (“l’ha snobbato“) dietro alla sesta del campionato spagnolo (“meglio: ci siamo evitati il PSG“) che l’ha presa a pallate a San Mamés (“pareggio da grande squadra“).

Eppure il leitmotiv che si udiva nei salotti d’opinione era lo stesso da mesi: “solo il Manchester City è più forte dell’Inter“. Superiorità stabilita da un percorso europeo contraddistinto dalle vittorie contro Porto, Benfica e Milan. Indubbiamente ottime squadre, ma non al livello di Bayern Monaco, Real Madrid, PSG e affini con le quali i nerazzurri non si sono mai misurati. E il problema è stato proprio questo: la mancanza di avversari sufficientemente probanti che stabilisse se l’Inter fosse davvero sul livello delle big europee.

Eppure, nonostante l’assenza della prova regina, la consueta vendita di fumo al fruitore medio (che ovviamente ci è cascato) non poteva mancare. Errare humanum est, perseverare diabolicum. Sorteggio dopo sorteggio è diventato impossibile continuare a credere alla buona fede, a bollare il tutto come un semplice “giudizio sbagliato”. L’Italia, nonostante tutto, rimane saldamente al primo posto nel Ranking UEFA.

Tuttavia, la stagione calcistica europea è ancora lunghissima e il calcio italiano dovrà affrontarla senza rappresentati nella massima rassegna internazionale per club. Certo, c’è ancora l’Europa League ma potrebbe non bastare. Servirebbe che tutte (o quasi) arrivassero sino in fondo. Indi per cui il fatto di considerare la quinta squadra in Champions già acquisita è stato un madornale errore di valutazione. Forse si dava per scontato il passaggio del turno di almeno due italiane su tre. O forse si dà tutt’ora per scontato che le squadre italiane impegnate in Europa, nonostante abbiano patito le pene dell’inferno anche solo per battere Maccabi Haifa e Slavia Praga, faranno tutte un percorso da protagoniste assolute.

  • RANKING UEFA AGGIORNATO AL 14/03/2024:

ITALIA 16,571
GERMANIA 15.928
INGHILTERRA 15.000
FRANCIA 14.416
SPAGNA 14,187
REP.CECA 13.000
BELGIO 12.400
TURCHIA 11.500
PORTOGALLO 10.166
OLANDA 10.000

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Il liberale a targhe alterne Malagò teme il Controllo Statale sui bilanci dei club di Serie A

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calcio

Giovanni Malagò ha ribadito la propria contrarietà al progetto anti-Covisoc varata dal Governo Meloni un’intervista alla Gazzetta.

Quando sei mesi fa (19 Novembre) scrissi il mio editoriale sul Controllo Statale del Governo Britannico sulla Premier League auspicai che fosse solo il primo passo per la fine della folle liberalizzazione del sistema calcio. Da anni il pallone si riempie la bocca con parole come “sostenibilità” senza però fare nulla di concreto per fermare la deriva capitalistica del calcio, che rischia di far implodere tutto il movimento.

Paesi diversi, stesso liberalismo spicciolo

Il Partito Conservatore britannico, a livello europeo, fa parte del “Partito dei Conservatori e dei Riformisti Europei“. Partito che fa capo proprio all’attuale Presidente del Consiglio italiano, ovvero Giorgia Meloni, e quindi l’Italia non poteva che essere il primo paese a seguire la linea guida dell’esecutivo inglese.

Ovviamente ogni paese ha le proprie specifiche culturali e l’esempio del PSR, che rischia di esacerbare le disparità economiche fra i club, dovrà fungere da vademecum per la norma anti-Covisoc. Dell’argomento ve ne abbiamo già parlato nella giornata di ieri, e oggi è arrivata anche l’attesa replica del Presidente CONI Giovanni Malagò.

Malagò ha concesso un’intervista alla “Gazzetta dello Sport, in cui si lascia andare alla tipica arringa pregna di ipocrisia dei liberali a targhe alterne. Reclama a gran voce l’autonomia delle istituzioni (“Lo stato non deve intervenire, ci regoliamo da soli“) ma poi invoca sussidi statali (“Il Decreto Crescita andava corretto e non abolito” ipse dixit 8 Gennaio 2024) dallo stesso governo a cui ha appena intimato di farsi da parte.

Il controllo statale sul sistema calcio è cosa buona e giusta. Soprattutto per ottundere la deriva liberale che vorrebbe il calcio come un corpo estraneo sui generis e che non deve rispondere alle regole che tutte le altre aziende sono chiamate a seguire. Legittimo, invece, chiedersi come possa un esecutivo dalla comprovata dabbenaggine occuparsi di questioni così delicate, ma quella di Malagò sembra la classica aprioristica difesa di chi vede minati i propri privilegi e che è disposto a tutto pur di proteggerli.

Malagò

Le parole di Malagò alla Gazzetta

Tempi e modi sbagliati, siamo al fianco della Figc. Provo dispiacere perché il Coni è venuto a saperlo dalla Figc, che ci ha inviato la bozza, e poi dalle agenzie di stampa. E non è la prima volta che succede. Il problema prima di tutto è di forma e di rispetto. Ritenevo normale che il Comitato Olimpico Italiano dovesse essere informato direttamente dal Governo di un argomento di una simile portata. Del resto siamo l’ente che vigila su tutte le federazioni sportive italiane, e invece niente. Se questo è il buongiorno…

Nella vita tutto è migliorabile: la Covisoc, il vostro giornale, il Coni, il Governo… Se l’esecutivo, a livello normativo, sta lavorando sulla creazione di questa agenzia da giugno scorso, perché non ha mai detto nulla? Perché non ha convocato una riunione per sentire il parere del Mef, del Coni e delle Federazioni? Magari se ci avessero interpellato avremmo fatto notare che non esistono solo le società professionistiche. Ora chi fa sport è inquadrato come lavoratore sportivo. E se fallisce una squadra di uno sport non sottoposto al controllo di questa autorità, cosa succede? Niente?

Mi sembra che la questione sia stata affrontata frettolosamente e violando l’autonomia dello sport. Le federazioni, sotto certi aspetti, potrebbero anche essere contente di togliersi la responsabilità di escludere le società dai campionati, ma bisogna fare le cose con i tempi e i modi giusti. Siamo a inizio maggio, in poco più di venti giorni è possibile approvare una riforma del genere nominando anche trenta componenti della nuova agenzia? Dal 31 maggio la Covisoc deve fare la verifica degli adempimenti delle società. Mi sembra una cosa illogica e poco rispettosa anche nei confronti della presidente della Covisoc (Germana Panzironi, ndr) che non conosco, ma che per storia, curriculum e prestigio è una persona di notevole spessore.

Il Governo già in passato ha fatto norme che si è dovuto rimangiare, penso per esempio al governo Conte-2. Il ministro Abodi ha la legittima volontà di migliorare qualcosa: benissimo, ma prima poteva interpellare noi, le federazioni, la Uefa e la Fifa. Se una società fosse esclusa da questa agenzia per motivi economici dal campionato e fosse invece iscritta dalla Uefa alla Champions o dalla Fifa al Mondiale per club, cosa succederebbe? Bella domanda, eh? Il Coni sarà al fianco delle federazioni e verificherà con la Uefa e la Fifa che il calcio e il nostro sport non possano avere dei problemi da questa legge.❞

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Inter: c’era una volta lo ‘Scansuolo’, ora la ‘Marotta League’

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Inter, Marotta

L’Inter ha subito un’altra sconfitta contro il Sassuolo, confermando che è l’unica squadra di Serie A capace di battere i neo-campioni d’Italia.

inter

Milano, Italy. 25th November 2020. Giuseppe Marotta Ceo of Fc Internazionale during Uefa Champions League Group B match between FC Internazionale and Real Madrid Fc .

Al Mapei Stadium, Laurienté ha deciso il match, replicando il risultato dell’andata a San Siro dove Bajrami e Berardi avevano ribaltato il vantaggio iniziale segnato da Dumfries.

La striscia di 42 partite consecutive in cui i nerazzurri hanno segnato almeno un gol in campionato si è fermata, sfumando la possibilità di battere il record della Juventus di Allegri, che è fermo a quota 44.

L’ultima volta che l’Inter non ha segnato è stata il 15 aprile 2023, quando il Monza ha vinto per 1-0 a San Siro.

Curiosamente, è stato il Monza, allenato da Palladino, a sconfiggere il Napoli alla 35esima giornata, dopo che quest’ultimo aveva festeggiato lo scudetto.

Questo scenario ricorda il percorso dell’Inter di quest’anno, dimostrando che i rilassamenti sono comuni e che le motivazioni giocano un ruolo cruciale.

Inter, Scansuolo e Marotta League

Sui social media, è tornato in tendenza l’hashtag #MarottaLeague, con l’opinione pubblica indignata per la sconfitta dell’Inter contro il Sassuolo.

Questo termine è stato usato in varie occasioni durante la stagione, inizialmente per il presunto favoreggiamento nel calendario, poi per i presunti “aiutini” del Var e ora per l’accusa di aver “regalato” i tre punti al Sassuolo per aiutarlo nella lotta contro la retrocessione.

Questa situazione ricorda la favola dello “Scansuolo”, un termine usato in passato per sostenere che il Sassuolo avrebbe favorito le vittorie delle grandi squadre italiane.

Tuttavia, la realtà è diversa, come dimostrato dalle vittorie del Sassuolo contro le grandi che riuscì nell’impresa di vincere in trasferta contro Juventus, Milan e Inter nella stagione 2021/2022.

Quella dello Scudetto vinto dai rossoneri di Pioli battendo proprio il Sassuolo nell’ultima giornata di campionato.

Allora furono i tifosi nerazzurri ad accusare i neroverdi di essersi “scansati”.

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Thanks Kingy, hai reso Leicester un posto migliore

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Commemorazione di Andy King, leggenda e bandiera ormai ammainata del Leicester, che ha dato il suo addio al calcio giocato nella giornata di ieri. Lettera aperta da parte di un tifoso delle foxes

Indice

Chi è Andy King: il leader silenzioso del Leicester di Ranieri

Andy King è l’unico calciatore nella storia del calcio inglese ad aver vinto il titolo in tutte e tre le principali leghe professionistiche d’oltremanica. Ha infatti vinto la Football League One e il Championship, rispettivamente l’equivalente della Serie C e della Serie B italiana, e la ben più importante Premier League del 2016.

Non è il primo giocatore che salta all’occhio di tutti quegli appassionati di calcio che ripensano all’impresa eroica del Leicester di Claudio Ranieri. Per i tifosi delle foxes, però, il gallese Barnstaple è uno dei giocatori più amati dell’ultima decade. Non solo perché i tre trofei sopracitati li ha vinti tutti con la maglia della Blue Army. Non solo perché in 15 anni con il blu indosso ha totalizzato 379 presenze condite da 62 gol e 24 assist.

Andy King, prima che il centro di formazione del Leicester diventasse uno dei più all’avanguardia d’Europa, è stato a lungo il miglior prodotto dell’Academy delle foxes. Talento purissimo. Numero dieci d’altri tempi, di quelli capaci di vendere magliette e biglietti anche in un periodo storico decisamente cupo per le volpi.

Il “local boy” del Leicester venuto dal Galles

Nella decade precedente all’acquisizione del club da parte della Asian Football Investments, il Leicester stava vivendo un periodo storico particolarmente mesto. Quello a cavallo fra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI fu tutto sommato un periodo pieno di soddisfazioni per un piccolo club dell’East Midlands.

Presenza fissa in Premier League. Esordio nelle coppe europee e addirittura due trofei (due League Cup) vinte nel giro di tre anni: una rarità da quelle parti. Poi, nella stagione 2003-2004, la retrocessione in Championship e da lì il buio. Una decade passata come jojo team fra la seconda e la terza serie del calcio inglese, e quando andava bene al massimo potevi goderti una mesta stagione a metà classifica.

In uno scenario di stagnante mediocrità, il talento cristallino di un gallese cresciuto in casa (e integratosi subito nel tessuto sociale della città, tanto da essere considerato un local boy pur non essendolo anagraficamente) è stato una luce nel buio di una squadra dalla mediocrità tecnica a tratti sconcertante.

Leicester

Photo Source: LCFC.com

Dal Championship alla Champions

Quando il Leicester si stabilizzò come una realtà consolidata del calcio inglese, vincendo la Premier League e facendo il proprio esordio in Champions League, King rappresentò (assieme a Kasper Schmeichel e Danny Drinkwater, quest’ultimo rapidamente dimenticato dopo il suo burrascoso passaggio al Chelsea) l’anello di continuità fra la nuova e ambiziosa proprietà thailandese e le umili radici di una squadra di provincia.

Purtroppo per lui, Kingy (così ribattezzato dai suoi tifosi) non poté concludere la propria carriera nel Leicester come sognava di fare. Se Claude Puel è uno dei tecnici più odiati della storia del Leicester, il motivo è (in parte) legato al suo rapporto con King e ad alcune dichiarazioni scioccanti dell’ex-numero dieci.

Durante il suo periodo di prestito semestrale allo Swansea, King concesse un’intervista al The Times (subito dopo l’esonero del francese, dato che comunque era ancora un tesserato del club) in cui rivelò a tutta l’Inghilterra un qualcosa che nell’ambiente Leicester era già noto: ovvero le pessime doti umane del transalpino.

Le frizioni con Puel, l’addio e il lieto fine

King parlò a cuore aperto, regalando alla stampa d’oltremanica dichiarazioni che sono rimaste nella storia del Leicester. Frasi come “Se Puel avesse potuto mandare via tutti i reduci del titolo vinto in un colpo solo, lo avrebbe fatto sicuramente“. Oppure “Non sarei mai voluto andare via, ma Puel non mi parlava. Se fossi rimasto la mia carriera da calciatore sarebbe finita perché non mi avrebbe fatto giocare neppure un minuto“.

Scoperchiato il vaso di pandora, molti suoi compagni (su tutti Ben Chilwell, un altro “ragazzo di casa” dato che era arrivato al Leicester a otto anni) gli fecero eco. Nonostante l’esonero di Puel, King non riuscì più a tornare al Leicester da giocatore ma lo fece da avversario: più precisamente lo scorso 23 Settembre.

In quell’occasione il gallese vestiva la maglia del Bristol City assieme a un altro reduce del 2016 come Matty James. In panchina c’era Nigel Pearson, l’allenatore che ha riportato le foxes in Premier League permettendo il “miracolo” del 2016. Di lì a poco dovrà rassegnare le proprie dimissioni a causa di una grave malattia neuronale e a lui vanno i miei più sinceri auguri di una pronta guarigione.

Il Leicester vince quella partita 1-0, ironia della sorte grazie al gol dell’unico reduce del 2016 in campo (l’altro è Albrighton, ma sedeva in panchina) ovvero Jamie Vardy, e il pubblico del King Power tributa una standing ovation sentita e accorata al proprio beniamino. In qualche modo il fato ha fatto il suo corso e ha permesso a Kingy di ricevere il meritato saluto della sua gente: esattamente come desideravano tutti.

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